Vi siete mai chiesti se le emozioni in azienda possano essere considerate nemiche o alleate? Se è giusto che entrino, che ruolo hanno o se sono utili?
L’essere umano non è esclusivamente un essere razionale, ma nelle scelte e nei comportamenti agiti intervengono anche le emozioni.
Studi di neuromanagement hanno permesso di rivoluzionare la visione classica dell’economia basata sulla razionalità. Congiungendo due discipline quali economia e psicologia è stato possibile dimostrare che i comportamenti messi in atto in contesti aziendali non sono sempre del tutto razionali, ma sono soggetti ad errori sistematici che sono conseguenza del funzionamento della mente umana.
La mente umana opera in due direzioni: da una parte mediante processi mentali consci e deliberativi, di cui tutti siamo consapevoli, e dall’altra parte tramite processi automatici cognitivi ed affettivi, che operano fuori dalla coscienza.
Negli anni l’interesse per le neuroscienze affettive applicate alle organizzazioni ha permesso di studiare i meccanismi emotivi impliciti che sottendono il comportamento umano, meccanismi che non sono visibili ad occhio nudo né interpretabili con dei sondaggi self report.
Di conseguenza, la sfera emotiva è apparsa altamente implicata nel comportamento di leader e collaboratori in quanto esercita una forza motivatrice sulla manifestazione di scelte e decisioni in ambito aziendale.

In ambito organizzativo, è necessario disporre di un buon grado di intelligenza emotiva perché questa consente di esprimere adeguatamente (in termini di modalità e tempistica) le emozioni durante un’interazione e permette di riuscire ad empatizzare adeguatamente con colleghi e collaboratori.
Questa capacità di empatizzare non significa provare compassione per gli altri o essere troppo permissivi, forse è per questo limite di interpretazione del termine che in molti vedono di cattivo occhio la sfera emotiva nell’ambiente di lavoro.
Essere in grado di provare empatia ed empatizzare con gli altri significa essere in grado di riferirsi a processi cognitivi ed emotivi che permettono ai soggetti di rappresentare mentalmente i processi affettivi e mentali altrui, al fine di produrre una reazione reale che sia coerente con il comportamento dell’altro.
L’empatia, infatti, sembra essere altamente relazionata con la potenzialità di leadership efficace in quanto i collaboratori sentono soddisfatti ed ascoltati i propri bisogni, a differenza di chi adotta uno stile di leadership troppo autoritario o lassativo.
Più che di empatia, nei contesti organizzativi ultimamente si parla di intelligenza emotiva, ovvero capacità di percepire ed esprimere le emozioni, di generare sentimenti che facilitano la cognizione e di comprendere e regolare le emozioni per promuovere una crescita intellettuale.
L’intelligenza emotiva è legata a tratti come il successo, flessibilità, autostima e felicità perché è stato dimostrato che questa abilità permette di eseguire ragionamenti e riflessioni sulle emozioni e di usare queste per migliorare il pensiero.
Perché allora nonostante lo scetticismo di molti, sta dilagando questo interesse da parte dei datori di lavoro?
La risposta la forniscono tutti i vantaggi che le neuroscienze con i relativi strumenti di competenza possono apportare nel conoscere e stimare a 360° il comportamento umano. L’utilizzo di strumenti neuroscientifici per indagare meccanismi impliciti è una fonte di innovatività e di impatto positivo sulle conoscenze che ad oggi si hanno dei processi mentali che sottendono il comportamento umano.
Inoltre, l’intelligenza emotiva sta diventando uno degli indicatori in campo organizzativo per misurare e quantificare l’efficacia potenziale dei manager e uno degli strumenti per sviluppare abilità di leadership ottimali.
Ai leader oggi è sempre più chiesto di essere in grado di motivare i collaboratori oltre che ad organizzare e gestire aspetti lavorativi e produttivi, mantenendo sempre un atteggiamento positivo al lavoro. È chiaro che avere un buon livello di intelligenza emotiva è funzionale nel capire i bisogni delle persone, capire come motivarle facendole sentire parte integrante del clima produttivo e organizzativo in generale.

Una terza risposta la si può trovare nell’interesse sempre maggiore dei datori di lavoro per il benessere lavorativo e psicologico dei propri dipendenti. In molti, infatti, stanno sempre più riconoscendo che un lavoratore soddisfatto, appagato e considerato anche nel contesto lavorativo è una risorsa ancora più produttiva e non può certo essere messa in discussione.
Ogni comportamento agito in un contesto aziendale concorre a modificare il clima organizzativo. È importante investire in risorse che si sentano parte di quel mondo, considerando che il lavoro ormai è parte della routine delle persone tanto da delimitarne i ritmi quotidiani.
FONTI:
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