“Un solo linguaggio non è mai abbastanza”: Anna Giuntini in mostra presso Manifiesto Blanco

Ciò che è nato per essere replicato in serie può apparire unico?

Un oggetto, un’immagine e una fantasia, se guardati in silenzio da occhi diversi, quante interpretazioni sono in grado di generare? Dipende dalla comunicazione, quella che ci concediamo quando osserviamo, e dal tempo che le dedichiamo. L’artista Anna Giuntini approfondisce queste tematiche in occasione del Milano Photofestival 17th, la grande rassegna milanese di fotografia d’autore. La mostra “Un solo linguaggio non è mai abbastanza” (Ane leid is nivver eneuch) è ospitata dal 22 settembre al 22 ottobre da Manifiesto Blanco, uno spazio di promozione artistica nel cuore di Milano.

“Displays and Powerlines”, il silenzio dei tralicci addormentati circondati dall’oro

“Insegno il silenzio
In tutte le lingue”

(Wisława Szymborska)

La prima parte della mostra è dedicata alla comunicazione e ai suoi meccanismi, quando funzionano e quando falliscono, ma anche al ricordo dei legami, con se stessi, gli spazi e l’Altro. Giuntini, in Displays and Powerlines, presenta 10 collage a base fotografica con immagini di tralicci, pali della luce e scheletri di maxi-affissioni ammansiti dalla presenza consolatrice e quasi violenta di fili d’oro.

Queste composizioni possono ricordare la prorompenza di un corpo e la necessità di trovare una bellezza forzata e necessaria, pur se fittizia. Ad alcuni evocano la forza della comunicazione anche in luoghi remoti, piccoli lumicini nella notte nera in volo sopra ad enormi campi di canna da zucchero, mentre altri scorgono nei fili dorati in fuga sopra alla metafora del feticcio vivo in mezzo al Nulla la Natura incontaminata dell’Amazzonia di Salgado. Infine, chissà, con un po’ di fantasia qualcuno potrebbe intravederci un demone ballerino estirpato dalle luci di un fanale.

“Attraverso la serie dei tralicci voglio trasmettere il messaggio che, se realmente lo si vuole, ci si può sempre riscoprire connessi, anche nei posti più impensabili. Ma attenzione, non parlo di connessioni sui social, ma di contatti reali. Quelli che possono nascere anche nel silenzio tra animi affini” spiega Giuntini. “Oggi disponiamo di tantissimi mezzi, sempre più nuovi ed efficienti, ma ci fanno sentire meno soli? E soprattutto, ci avvicinano a quello che abbiamo davanti, sia una persona, un paesaggio o uno scatto, senza l’angoscia viscerale di correre subito dietro allo stimolo successivo? Io credo che il problema non siano gli strumenti, ma le persone, che non riescono più a dialogare e ascoltarsi. Le parole corrono superficiali e frettolose e creano linguaggi poco empatici, distanti, pregni di messaggi vuoti e confusi. Dovremmo ritrovare l’intimità del nostro modo di sentire”.

“La comunicazione, quindi, ha a che fare con la qualità dell’attenzione, e cioè con il tempo che si investe nel prestarsi a sé e all’altro?”
“Sì, infatti l’obiettivo della mostra è proprio questo: presentare degli stimoli, quasi sempre sintesi evocative di ricordi lavorati in postproduzione, sperando possano fungere da ispirazione a chi li osserva. Ho adoperato dei cimeli materiali che mi hanno accompagnata durante i miei spostamenti: bustine da tè, vecchie missive, tappi di bottiglia, una graffetta arrugginita, parole selezionate da un annuncio, la copertina di un libro (chissà quale) che un tempo era costato 2300 Lire, echi di una poesia… Ognuno di questi ha svolto un tempo una funzione ben precisa associata a una modalità di contatto. Adesso, in una nuova rivisitazione, può diventare interessante per qualcun altro: un colore, una texture possono attirare e far fermare un osservatore, che in un istante sceglie di entrare in una storia, provando a indovinare ad esempio quale sia il nesso tra un francobollo porpora e la singola fila di pali trasportata dai cavi nel Queen Elizabeth NP in Uganda, o cercando di capire come mai una frase sia adagiata sul ventre metaforico di un paesaggio grigio. Mi piace pensare che l’osservatore possa smarrirsi in questi spunti, concedendosi ciò che di più prezioso ha: perdere istanti del proprio tempo, abbandonando la velocità tipica dei nostri giorni e rimanendo invece con la sua immaginazione. Credo che questo meccanismo, con le mie opere di ieri risignificate dagli osservatori, permetta agli oggetti dei legami di rinnovarsi perpetuamente, senza morire mai”.

“Maldafrica”, l’evocazione di una Nostalgia

“Memoria di tela
La ripercorro a ritroso
E ritorno Io”

(Bogusława Latawiec)

Cieli giganteschi, nature pregne di rigogliosi silenzi nascosti dietro fitte trame nere, spazi sconfinati come quelli descritti da Darwin: tra i tanti scorci che hanno ispirato l’artista, grande esploratrice, la protagonista del Carnet de Voyage che costituisce la seconda sezione della mostra è l’Africa.
Partendo da 6 piccole opere preparatorie – fatte di appunti, ricordi, oggetti, suggestioni cromatiche e materiali cartacei – si arriva a 13 paesaggi in cui i colori si fanno gradualmente tinte fumé, con prevalenza di grigi, bianchi e rosa in dissolvenza, a evocare i contorni di ieri che impastano dolcemente grazie alla sovrapposizione in digitale di carte, pitture e bordi incompleti. È qui, in questa rivisitazione evocativa, che nasce la Nostalgia, il “mal d’Africa”.

“La mia nostalgia non è stata immediata. Mi ha investita anni dopo, quando ho ritrovato gli scatti del viaggio in Sudafrica. Le percezioni tattili di quei cimeli mi hanno riportata indietro, e ho compreso che in quel lasso di tempo le sensazioni iniziali, quelle vissute sul posto, non mi avevano mai abbandonata. In un lampo ho risentito sotto di me la brutale concretezza del terreno, i panorami zeppi di luce e quel gran patto di spaesamento che noi europei, tanto abituati alle meraviglie dell’arte, delle chiese e delle campane, proviamo dinanzi al contatto meraviglioso e brutale con l’immensità che ci sovrasta. È l’assenza di stimoli delimitanti a marcare quegli spazi nel nostro immaginario, a farci perdere il fiato, spalancandoci dinanzi il Sogno così come l’essenza della materia priva di orpelli. La Natura è ovunque, muta, immensa e fortissima, e oggi la risento triste e dolce al tempo stesso”.

Se ne riascolta l’eco sorda nei piccoli surfisti che sembrano macchioline sull’acqua chiara, ma la si ritrova anche nei dettagli delle persone che in quei luoghi ci vivono: la carta rossa di un cioccolatino fondente tratteggiata da un arabescato teschio bianco, i francobolli da collezione con rinoceronti e fiori rari, una piccola sim locale, la vacua luce blu che avvolge una finestra anonima appartenente a chissà quale latitudine, la colonna sonora creata passo passo nel viaggio on the road, la presenza ingombrante della sabbia nell’evocativa cittadina di Luderitz, nel sud della Namibia, zona dei diamanti e delle città fantasma abbandonate dai minatori.

Il richiamo della memoria e la sua commistione con il divenire emergono anche in altre serie di Giuntini, quali la suggestiva Ghost and found in Pakistan (visibile sul sito dell’artista), realizzata in analogico con ritagli di cartoline provenienti dal Pakistan e carta recuperata su dorsi di libro. I protagonisti sono sempre gli stessi, riposizionati in diversi contesti, ma non sono mai identici tra loro perché il tempo è cambiato, e nulla, nemmeno le cornici che dovrebbero fare da sfondo, permangono invariate.

L’oro: il legame tra le due sezioni

Una costante delle opere figurative ed evocative di Giuntini è l’oro, protagonista non solo di “Un solo linguaggio non è mai abbastanza”.
“L’oro ha sicuramente una lunga storia di componente decorativa e simbolica e finanche religiosa. Quel che a me interessa è come il metallo cambi a seconda della luce: devi osservare attentamente i piccoli mutamenti, e ogni attimo può essere l’epifania di una nuova sfumatura.
Un esempio chiaro penso sia dato dal reportage a seguito del viaggio in Islanda: stavo a guardare gli iceberg silenzioni e apparentemente immobili nella laguna e avevo la sensazione di non dover essere li, che tutto era già stato e avrebbe continuato ad essere anche senza di noi; La Natura non ha bisogno di noi, è ricca e forte e sa guarirsi da sola. Tornata a casa ho cercato di appresentare tutto questo nella serie “Goldenice”: in queste foto che ritraggono il ghiaccio islandese ho sostituito le naturali venature scure della polvere lavica intrappolata al suo interno con l’oro, prima in digitale e poi a mano con inchiostro dorato sulle stampe. L’ho fatto per avere un promemoria: noi ce lo stiamo dimenticando, il silenzio, consumatori insaziabili di rumori e piaceri che “colmino”, almeno all’apparenza, i tanti vuoti che ci circondano. La miglior soluzione sarebbe, forse, fermarsi e perdere un po’ di quel tempo che tanto rincorriamo, per sentire noi stessi e ritrovarci mirabilmente imperfetti, ma quantomeno vicini agli altri”.

ANE LEID IS NIVVER ENEUCH
Anna Giuntini
23 settembre – 22 ottobre 2022, da martedì a sabato h. 16 –19
Ingresso libero
Galleria Manifiesto Blanco
Via Benedetto Marcello, 46
20124 – Milano

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